Nonno aveva portato in campagna la scrivania che un tempo teneva nel suo «scagno» in paese. Era stato un grosso com-merciante di zolfi e quella maestosa scrivania aveva rappresentato il simbolo della sua ricchezza.
Aveva un rialzo che, partendosi dal piano di scrittura, si sollevava
per un metro e mezzo ed era composto da diecine di cassettini pieni,allora per me, di meraviglie: ceralacca, timbri, spille, francobolli,marche da bollo. A destra e a sinistra del vano do-
ve s’infilavano le gambe, c’eranotre grossi cassetti per parte sempre chiusi a chiave. Ma un altro cassetto, il più importante, era quello di centro, proprio sotto al piano di scrittura. Anche questo era sempre chiuso a chiave.Là dentro nonno conservava
conti, ricevute, libri mastri e soprattutto il denaro che gli occorre-
va per i lavori di campagna.
Era un uomo ordinato e preciso e perciò il denaro lo suddivi-
deva dentro tante scatolette di cartone senza coperchio: le mo-
nete in cinque o sei scatoline a seconda del loro valore; una sola,
più grande delle altre, conteneva le banconote.
Un’estate il nonno, che era solitamente assai gentile con tutti, co-
minciò a mostrarsi un pochino nervoso. Parlava poco, rispondeva
di malavoglia. Ce ne accorgemmo e pensammo che non stesse tanto bene in salute.
Un giorno, a tavola, nonna gli domandò: «Ma si può sapere che
hai? Stai male? Vuoi che faccia venire Gino?». Gino era lo zio medico.
«Qua non c’è bisogno di un dottore, ma di un carabiniere» rispose
nonno. Naturalmente, restammo tutti perplessi. Che voleva dire? Lo seppi qualche giorno dopo, quando mi chiamò nel suo studio.
«Entra, chiudi la porta e siediti».
Aveva un tono di voce severo.
«Parliamo da uomo a uomo.
Tu» mi disse «sei sempre stato un picciotto leale. E perciò da te voglio una risposta sincera. D’accordo?».
«Sì, nonno».
«Sei tu che l’apri?» mi domandò indicandomi il cassetto centrale.
«Io? E perché dovrei aprirlo?»
risposi veramente sorpreso dalla domanda.
«Se mi dici che non sei stato tu, ti credo» fece guardandomi
negli occhi.
«Ti giuro, nonno, che…».
«Non giurare, puoi andare».
Corsi da nonna, con la quale avevo molta confidenza. «Perché
mi ha domandato se avevo aperto il cassetto?». «Perché gli spariscono i soldi di carta». «E pensa che possa essere stato io?!». Mi sentii profondamente offeso, mi venne
da piangere. Mia nonna mi consolò come meglio poté, ma io mi portai a lungo dentro una specie di risentimento verso di lui. Per una settimana non volli accompagnarlo nella passeggiata che ogni giorno si faceva al tramonto.
Zio Massimo cambiò la serratura del cassetto e consegnò solen-
nemente le nuove chiavi a nonno.
Il problema sembrò risolto. Ma tre giorni appresso, a tavola,
nonno era nuovamente d’umore nero. Appena le cameriere, la gnà Filippa e sua figlia Grazia, portarono il primo piatto, alzò una mano e disse: «Sentitemi bene. Avevo cinque fogli da cento lire nel cassetto. Stamattina, aprendolo, non ne ho trovato manco uno». Fece una pausa e aggiunse: «Non vo-
glio dare la colpa a nessuno. Ma il fatto è questo: qualcuno di voi mi ruba i soldi. Oggi dopo pranzo tu, Massimo, vai a chiamare i carabinieri. Continuate a mangiare. Io non ne ho voglia».
Si alzò e se ne andò nella sua camera da letto. Ci sentimmo tutti
colpevoli. Calammo la testa sui piatti, ma nessuno osò comincia-
re a mangiare. «Ma come?!» fece stupito e irritato zio Massimo rompendo il pesante silenzio. «Anche con la nuo-
va serratura?». Si alzò di scatto, dicendo alle cameriere: «Venite a
darmi una mano». Naturalmente gli andammo tutti dietro. Con
l’aiuto delle due donne, lo zio spostò la pesantissima scrivania che praticamente copriva tutta una parete dello studio.
Già mentre la spostavano, cadde a terra, svolazzando, una banco-
nota da cento ch’era rimasta incastrata nel retro. E subito dopo ne
scorgemmo un’altra, accartocciata, infilata per metà dentro a un
buco nel pavimento, fino ad allora rimasto del tutto coperto dall’imponente scrivania. Allora non avemmo più dubbi:
erano topi, i ladri. Entravano da dietro, approfittando di un picco-
lo spazio tra il cassetto e il piano del tavolo, rubavano le belle banconote profumate (per loro) di grasso e sudore, e se ne scappavano per la stessa strada.
Ma che se ne facevano?
Senza dire una parola, lo zio uscì dallo studio, scese le scale di corsa, aprì la porticina della cantina, sempre seguito da tutti noi, entrò,si fermò, guardò in alto come per orientarsi e poi si diresse verso le botti che stavano poggiate in fila sopra due lunghissime travi parallele, a loro volta sorrette da colonnine di cemento. S’infilò in mezzo alle due travi e si chinò a guardare sotto all’ultima botte. Lo sentimmo cominciare a ridere, sempre più forte. Poi si rialzò, scavalcò la trave e ci disse: «Andate a vedere. Io vado a dirlo a papà». Non resistetti alla curiosità. Precedendo tutti,m’infilai in mezzo alle travi e guardai sotto alla botte.
C’erano tre nidi di topi, tutti fatti usando le banconote di nonno.
Ogni nido poggiava su alcuni fogli intatti, che, disposti l’uno sul-
l’altro, ne costituivano la base. Sopra di essa, i resti di altre banconote, appena riconoscibili perché tutte finemente triturate, formavano un soffice lettino per i neonati.