Deglobalizzazione.Michael Spencer. (di M. Masciaga, il sole24)

Uhm… credo di aver imparato a dire: “Non lo so”». Ho appena chiesto a Michael Spence come è cambiata la sua vita dopo aver
vinto, nel 2001, il Nobel per l’Economia e il professore statunitense si sta cimentando in una cosa in cui eccelle: non
prendersi troppo sul serio. Il problema, spiega, è che dopo
il premio «la gente tende ad ascoltare quello che hai da
dire… anche quando non hai la minima idea di ciò di cui stai
parlando».
La battuta è brillante, ma mi sorprende solo fino a un
certo punto. Quando si mette a scherzare sulla propria
“ignoranza”, Spence sta parlando ormai da 45 minuti e ho
già notato come non abbia mai detto di aver «vinto» il Nobel.
Ogni volta che vi fa cenno, l’espressione che usa è «came
along». Come se il riconoscimento più ambito gli fosse ap-
punto «arrivato», motu proprio, più o meno per caso.
Con il professore della New York University e della Boc-
coni ci siamo dati appuntamento in un hotel di Brera, nel
centro di Milano, la città dove da una decina d’anni vive con
la moglie italiana e i loro figli e dove non è raro vederlo sfrec-
ciare in bicicletta. Al netto di rughe e zazzera bianca, Spence
ha l’aspetto di un uomo più giovane dei suoi imminenti 75
anni. Oggi indossa una polo bianca, jeans neri e mocassini
che hanno visto tempi migliori. Le braccia abbronzate e un
diver della Seiko suggeriscono che l’estate è stata trascorsa
a debita distanza da formule e lavagne.
In un’epoca in cui sembra obbligatorio avere convinzioni
granitiche, Spence dà l’impressione di osservare i fenomeni
economici e sociali con la curiosità dello scienziato e il di-
stacco di chi ha deciso di vestire con frugalità i panni del
public intellectual. Fortunatamente l’umiltà che filtra dalle
sue risposte, anziché circoscrivere il perimetro dei suoi ra-
gionamenti, funziona da lubrificante dialettico. Non appena
finisce di esporre un’idea, si mette a osservare il problema
dalla prospettiva opposta. Il risultato è un alternarsi di cam-
pi e controcampi che aiuta a capire non tanto “cosa”, ma
“come”, pensa.
Quando gli chiedo un punto di vista su alcune derive in
atto in Occidente (unilateralismo, pulsioni antiscientifiche,
barriere commerciali…) lui spiega che si tratta di questioni
«unambiguously problematic, almeno dal punto di vista dei
rischi che creano». Subito dopo però aggiunge che «c’è un
modo leggermente diverso di guardare a tutto questo: il
mondo andava riconfigurato, c’era bisogno di fare dei passi
indietro perché eravamo su un sentiero che per la gente non
funzionava. Ciò a cui stiamo assistendo è questa ritirata. È
disordinata, certo. Potrebbe “costarci” la Wto. L’Eurozona
potrebbe uscirne trasformata. Un altro modo di guardare
a questa sorta di deglobalizzazione – aggiunge Spence, co-
me per condurre la sua risposta verso una sintesi – è che non
è il caso di essere troppo pessimisti. Stiamo riportando in
equilibrio un grande sistema. Non perché qualcuno abbia
necessariamente commesso degli errori imperdonabili, ma
perché nel frattempo abbiamo imparato un sacco di cose».
A questo punto Spence indossa per qualche minuto i
panni del professore e mi invita a pensare alla globalizzazio-
ne in termini di flussi di beni e servizi; capitali; persone; dati.
«Su tutte e quattro queste dimensioni – spiega – stiamo assi-
stendo a una marcia indietro. Prendiamo i dati, ovvero In-
ternet. Per i cinesi è chiaramente una rete nazionale che
connettono all’esterno nella misura in cui lo reputano utile.
Gli europei ora dicono: “Non avevamo realizzato quanto la
sicurezza dei dati e della privacy fossero importanti. Quindi
cominciamo anche noi a porre delle condizioni”. Ma la cosa
più interessante è che anche gli indiani hanno cominciato
a guardarsi attorno e hanno deciso che sarebbe un errore
non avere delle mega-piattaforme web nazionali come
quelle cinesi: Ali Baba, Tencent, Baidu… Ora, siccome oggi
le mega-piattaforme sono in Cina e negli Stati Uniti, sono
curioso di vedere cosa faranno India ed Europa, dato che
entrambe hanno il potenziale per svilupparne di proprie,
perché la questione è cruciale». Perché? «Beh, perché l’intel-
ligenza artificiale si sviluppa intorno alle mega-piattaforme,
perché è lì che ci sono le grandi masse di dati. Dieci anni fa
chi avrebbe pensato che a trainare la ricerca sui veicoli a
guida autonoma sarebbe stato un motore di ricerca? Invece
sono loro ad avere le tecnologie per il riconoscimento delle
immagini e i dati per sviluppare l’intelligenza artificiale».
Spence segue con grande curiosità questo tipo di trasfor-
mazioni (lo divertono tanto i “Flash boys” che spendono
fortune in fibra ottica per fare high-speed trading quanto gli
influencer che si accaparrano follower sui social network) ed
è convinto che l’impatto della tecnologia sul mondo del la-
voro sarà meno duro di quello della globalizzazione. «Il pro-
cesso – spiega – sta avvenendo più lentamente di quanto si
creda e gli effetti saranno più diffusi. In termini occupazio-
nali la globalizzazione ha colpito in maniera molto precisa
geograficamente, per esempio dove c’erano industrie tessili
e dell’abbigliamento. Oggi nei Paesi industrializzati il setto-
re non-tradable (quello più a rischio, ndr) vale circa due terzi
dell’economia, quindi l’impatto sarà meno concentrato.
Questo non significa che non ci saranno problemi. Ma forse
arriveremo a un punto in cui la gente riceverà stipendi ade-
guati senza lavorare tanto come adesso».
Il guaio, secondo Spence, è che le istituzioni non stanno
rispondendo in maniera efficiente al cambiamento. «Ci so-
no due dimensioni: la prima è quella in cui governo, mondo
del lavoro e mondo della scuola intervengono. Il modello
migliore è quello in cui collaborano, ma la cosa implica un
livello di fiducia reciproca che non c’è dappertutto. La secon-
da dimensione ha a che fare con le rigidità strutturali. Certe
resistenze sono difficili da superare perché originano dal
bisogno di impedire abusi. I Paesi capaci di adattarsi sono
quelli in cui si riesce a convincere la gente che le novità non
marginalizzeranno un sacco di persone. E non è mai facile».
Anche perché, suggerisco, negli ultimi anni la fiducia
sembra merce piuttosto rara, come testimonia il crescente
scetticismo verso gli esperti, e gli economisti in particolare.
«Premesso che un mondo che non crede alla conoscenza è
un mondo molto pericoloso, penso che un po’ ce lo siamo
meritato. Non abbiamo valutato in maniera equilibrata al-
cune cose molto importanti che stavano accadendo. Diceva-
mo che la globalizzazione avrebbe favorito praticamente
tutti, con alcune piccole eccezioni che avremmo trovato il
modo di compensare. Eccetto per il fatto che il modo non è
stato trovato. E poi abbiamo perso altra credibilità perché
non avevamo la più pallida idea del rischio sistemico che ha
generato la crisi finanziaria del 2008. Ancora oggi non sia-
mo in grado di capire quando inizia a crescere».
Eppure, protesto, c’è già chi chiede la deregulation dei
mercati. «Vero, ma non necessariamente a torto», risponde
Spence che è convinto che su questo terreno ci sia stata una
reazione eccessiva. «Detto questo -chiosa – pensare che il sistema si possa regolare da solo sarebbe un grave errore: ci sono troppi conflitti d’interesse, opacità… Nella crisi dei subprime – prosegue – c’era gente che, pur sapendo benissimo quello che stava accadendo, non immaginava che sarebbe saltato tutto. E la
colpa non è stata della decisione di lasciare fallire Lehman Brothers. Non dico che salvarla non avrebbe fatto alcuna differenza, ma c’erano già ogni sorta di problemi: asset tos-
sici, eccesso di leva, bolla immobiliare… Il mercato interbancario su scadenze overnight ha iniziato a bloccarsi una settimana prima che Lehman andasse giù».
Quando torniamo a parlare del futuro e gli chiedo che
tipo di preparazione serva ai giovani in un mondo del lavoro
in rapida evoluzione, Spence spiega che «insegnare cose
destinate a diventare obsolete è inevitabile. Ciò che bisogna
fare è formare persone che provano piacere a imparare
sempre cose nuove. È un’attitudine che si crea nei primissi-
mi anni di scuola» e che nel caso di Spence è stata evidente-
mente coltivata con un certo successo, tanto che il dottorato
in economia a Harvard che ha lanciato la sua carriera acca-
demica è venuto solo dopo gli studi di filosofia a Princeton
e di matematica a Oxford.
Oggi Spence è convinto che dietro un ricercatore di suc-
cesso ci siano tre elementi: una dose ragionevole di intelli-
genza («nella vita non ho dovuto fare molta strada per tro-
vare gente parecchio più sveglia di me» dice, facendomi
sentire un po’ meno solo); un po’ di serendipity nell’imbat-
tersi in un filone di specializzazione promettente; e molta
tenacia, nel suo caso ereditata da una madre «con una tolle-
ranza relativamente bassa per il fatto che noi figli rinuncias-
simo a fare una cosa senza neppure averci provato. Sono
convinto che i ragazzi possano beneficiare enormemente
dal fatto di crescere avendo fiducia in se stessi». Un debito
di gratitudine verso i propri genitori che il premio Nobel, a
distanza di decenni, riassume con limpidezza: «Non ci han-
no mai fatto sentire alcuna costrizione che non fosse il modo
in cui usavamo il nostro tempo e il nostro talento».

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