GIANNI CANOVA

«Un tempo la cultura
era un valore. Chi sapeva di
non possederla ambita a conquistarla. E chi l’aveva la ostentava come un titolo di vanto. Oggi è esattamente
l’opposto. Da valore è diventata un disvalore»

GIANNI CANOVA

«Un tempo la cultura
era un valore. Chi sapeva di
non possederla ambita a conquistarla. E chi l’aveva la ostentava come un titolo di vanto. Oggi è esattamente
l’opposto. Da valore è diventata un disvalore»

Gli scrittori oggi. Giacomo Papi

Ci sono momenti, però, in cui il presente
è troppo invadente per essere affrontato
con distacco. Quando accade, e in Italia
accade spesso, gli scrittori tendono a di-
sotterrare un’altra gloriosa arma della tra-
dizione nazionale: l’invettiva. Anche que-
sto schema si ripete quasi identico da Ro-
ma antica. L’invettiva nasce dall’indigna-
tio e non mira a convincere, ma a tracciare
un solco tra buoni e cattivi, attirando a sé
pubblico e follower. Nonostante la sua con-
clamata ineicacia politica, nei secoli ha
afascinato i più grandi: Dante attaccò bri-
ga con chiunque (iorentini, pisani, pistoie-
si, genovesi, con il papa e con la «serva Ita-
lia»), Petrarca, Alieri, lo stesso Manzoni,
Leopardi, D’Annunzio, Gadda, Corrado
Govoni, giù giù ino alla Rabbia e l’orgoglio
di Oriana Fallaci.
(…)

L’alternativa è abbando-
nare il presente al racconto dei social e ras-
segnarsi all’idea che gli scrittori siano pre-
sbiti come i dannati della Divina comme-
dia, capaci soltanto di vedere lontano:
«“Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose”, disse “che ne son lontano; cotanto
ancor ne splende il sommo duce. Quando
s’appressano o son, tutto è vano nostro in-
telletto; e s’altri non ci apporta, nulla sa-
pem di vostro stato umano”».

“La notte di un’epoca” di Massimiliano Valerii

«La società del rancore ha da una parte un
fondamento concreto: il blocco dei processi
di mobilità sociale, una novità nella nostra
storia: dal dopoguerra in poi lo sviluppo
contava su un meccanismo di progressione
lineare»,(…)«Ma dall’altra parte
è determinata da fattori immateriali, come il
naufragio delle tre grandi narrazioni post-i-
deologiche dominanti dal 1989 in poi: il so-
gno infranto di un’Europa unita. La globaliz-
zazione, che invece di beneici e vantaggi ha
generato sovranismi, guerre dei dazi e “for-
gotten people” minoranze dimenticate e ri-
maste indietro. Il mito tecnologico che al
posto della democrazia ha fatto emergere gli
oligopoli dei giganti della rete, fake news e
post verità. La conseguenza è una nuova antropologia dell’insicurezza: uno stato
di “delazione delle aspettative”, che si impo-
ne come categoria dello spirito del tempo».

Stanno succedendo cose
che non erano mai accadute prima. Non si
era mai veriicata, ad esempio, un’integrazio-
ne così forte della potenza della tecnica nelle
vite personali di ciascuno con livelli simili di pervasività. La celebrazione digitale dell’«io»
è il trionfo dell’individualismo, e si muove
parallelamente alla frantumazione dei palin-
sesti di senso collettivi»

La Politica e la Europa

Una cosa è successa molto tempo fa in Europa, e solo in Europa: la rottura del filo della tradizione religiosa. Con la Rivoluzione francese— né dio né padrone — abbiamo cancellato dio, tagliato la testa al re e messo al loro posto l’ideologia dell’umanesimo, che
ha finito per diventare un valore astratto.La politica è diventata la nuova religione,con l’idea che la democrazia rappresentativa possa risolvere i problemi della felicità, della morte, dell’avvenire, l’inferno e il paradiso qui sulla Terra. Abbiamo dato alla politica responsabilità enormi, e questo modello è crollato con la Shoah e i gulag. Sopravvive a stento un’idea più ridotta della politica come gestione dell’esistente gestione che è comunque soffocata dalla finanziarizzazione dell’economia e della rivoluzione digitale. In questo stato di cose la politica siriduce a showbiz o carnevale. Donald Trump ne è l’espressione, e infatti arriva ad adattarsi alla situazione meglio degli altri».

Deglobalizzazione.Michael Spencer. (di M. Masciaga, il sole24)

Uhm… credo di aver imparato a dire: “Non lo so”». Ho appena chiesto a Michael Spence come è cambiata la sua vita dopo aver
vinto, nel 2001, il Nobel per l’Economia e il professore statunitense si sta cimentando in una cosa in cui eccelle: non
prendersi troppo sul serio. Il problema, spiega, è che dopo
il premio «la gente tende ad ascoltare quello che hai da
dire… anche quando non hai la minima idea di ciò di cui stai
parlando».
La battuta è brillante, ma mi sorprende solo fino a un
certo punto. Quando si mette a scherzare sulla propria
“ignoranza”, Spence sta parlando ormai da 45 minuti e ho
già notato come non abbia mai detto di aver «vinto» il Nobel.
Ogni volta che vi fa cenno, l’espressione che usa è «came
along». Come se il riconoscimento più ambito gli fosse ap-
punto «arrivato», motu proprio, più o meno per caso.
Con il professore della New York University e della Boc-
coni ci siamo dati appuntamento in un hotel di Brera, nel
centro di Milano, la città dove da una decina d’anni vive con
la moglie italiana e i loro figli e dove non è raro vederlo sfrec-
ciare in bicicletta. Al netto di rughe e zazzera bianca, Spence
ha l’aspetto di un uomo più giovane dei suoi imminenti 75
anni. Oggi indossa una polo bianca, jeans neri e mocassini
che hanno visto tempi migliori. Le braccia abbronzate e un
diver della Seiko suggeriscono che l’estate è stata trascorsa
a debita distanza da formule e lavagne.
In un’epoca in cui sembra obbligatorio avere convinzioni
granitiche, Spence dà l’impressione di osservare i fenomeni
economici e sociali con la curiosità dello scienziato e il di-
stacco di chi ha deciso di vestire con frugalità i panni del
public intellectual. Fortunatamente l’umiltà che filtra dalle
sue risposte, anziché circoscrivere il perimetro dei suoi ra-
gionamenti, funziona da lubrificante dialettico. Non appena
finisce di esporre un’idea, si mette a osservare il problema
dalla prospettiva opposta. Il risultato è un alternarsi di cam-
pi e controcampi che aiuta a capire non tanto “cosa”, ma
“come”, pensa.
Quando gli chiedo un punto di vista su alcune derive in
atto in Occidente (unilateralismo, pulsioni antiscientifiche,
barriere commerciali…) lui spiega che si tratta di questioni
«unambiguously problematic, almeno dal punto di vista dei
rischi che creano». Subito dopo però aggiunge che «c’è un
modo leggermente diverso di guardare a tutto questo: il
mondo andava riconfigurato, c’era bisogno di fare dei passi
indietro perché eravamo su un sentiero che per la gente non
funzionava. Ciò a cui stiamo assistendo è questa ritirata. È
disordinata, certo. Potrebbe “costarci” la Wto. L’Eurozona
potrebbe uscirne trasformata. Un altro modo di guardare
a questa sorta di deglobalizzazione – aggiunge Spence, co-
me per condurre la sua risposta verso una sintesi – è che non
è il caso di essere troppo pessimisti. Stiamo riportando in
equilibrio un grande sistema. Non perché qualcuno abbia
necessariamente commesso degli errori imperdonabili, ma
perché nel frattempo abbiamo imparato un sacco di cose».
A questo punto Spence indossa per qualche minuto i
panni del professore e mi invita a pensare alla globalizzazio-
ne in termini di flussi di beni e servizi; capitali; persone; dati.
«Su tutte e quattro queste dimensioni – spiega – stiamo assi-
stendo a una marcia indietro. Prendiamo i dati, ovvero In-
ternet. Per i cinesi è chiaramente una rete nazionale che
connettono all’esterno nella misura in cui lo reputano utile.
Gli europei ora dicono: “Non avevamo realizzato quanto la
sicurezza dei dati e della privacy fossero importanti. Quindi
cominciamo anche noi a porre delle condizioni”. Ma la cosa
più interessante è che anche gli indiani hanno cominciato
a guardarsi attorno e hanno deciso che sarebbe un errore
non avere delle mega-piattaforme web nazionali come
quelle cinesi: Ali Baba, Tencent, Baidu… Ora, siccome oggi
le mega-piattaforme sono in Cina e negli Stati Uniti, sono
curioso di vedere cosa faranno India ed Europa, dato che
entrambe hanno il potenziale per svilupparne di proprie,
perché la questione è cruciale». Perché? «Beh, perché l’intel-
ligenza artificiale si sviluppa intorno alle mega-piattaforme,
perché è lì che ci sono le grandi masse di dati. Dieci anni fa
chi avrebbe pensato che a trainare la ricerca sui veicoli a
guida autonoma sarebbe stato un motore di ricerca? Invece
sono loro ad avere le tecnologie per il riconoscimento delle
immagini e i dati per sviluppare l’intelligenza artificiale».
Spence segue con grande curiosità questo tipo di trasfor-
mazioni (lo divertono tanto i “Flash boys” che spendono
fortune in fibra ottica per fare high-speed trading quanto gli
influencer che si accaparrano follower sui social network) ed
è convinto che l’impatto della tecnologia sul mondo del la-
voro sarà meno duro di quello della globalizzazione. «Il pro-
cesso – spiega – sta avvenendo più lentamente di quanto si
creda e gli effetti saranno più diffusi. In termini occupazio-
nali la globalizzazione ha colpito in maniera molto precisa
geograficamente, per esempio dove c’erano industrie tessili
e dell’abbigliamento. Oggi nei Paesi industrializzati il setto-
re non-tradable (quello più a rischio, ndr) vale circa due terzi
dell’economia, quindi l’impatto sarà meno concentrato.
Questo non significa che non ci saranno problemi. Ma forse
arriveremo a un punto in cui la gente riceverà stipendi ade-
guati senza lavorare tanto come adesso».
Il guaio, secondo Spence, è che le istituzioni non stanno
rispondendo in maniera efficiente al cambiamento. «Ci so-
no due dimensioni: la prima è quella in cui governo, mondo
del lavoro e mondo della scuola intervengono. Il modello
migliore è quello in cui collaborano, ma la cosa implica un
livello di fiducia reciproca che non c’è dappertutto. La secon-
da dimensione ha a che fare con le rigidità strutturali. Certe
resistenze sono difficili da superare perché originano dal
bisogno di impedire abusi. I Paesi capaci di adattarsi sono
quelli in cui si riesce a convincere la gente che le novità non
marginalizzeranno un sacco di persone. E non è mai facile».
Anche perché, suggerisco, negli ultimi anni la fiducia
sembra merce piuttosto rara, come testimonia il crescente
scetticismo verso gli esperti, e gli economisti in particolare.
«Premesso che un mondo che non crede alla conoscenza è
un mondo molto pericoloso, penso che un po’ ce lo siamo
meritato. Non abbiamo valutato in maniera equilibrata al-
cune cose molto importanti che stavano accadendo. Diceva-
mo che la globalizzazione avrebbe favorito praticamente
tutti, con alcune piccole eccezioni che avremmo trovato il
modo di compensare. Eccetto per il fatto che il modo non è
stato trovato. E poi abbiamo perso altra credibilità perché
non avevamo la più pallida idea del rischio sistemico che ha
generato la crisi finanziaria del 2008. Ancora oggi non sia-
mo in grado di capire quando inizia a crescere».
Eppure, protesto, c’è già chi chiede la deregulation dei
mercati. «Vero, ma non necessariamente a torto», risponde
Spence che è convinto che su questo terreno ci sia stata una
reazione eccessiva. «Detto questo -chiosa – pensare che il sistema si possa regolare da solo sarebbe un grave errore: ci sono troppi conflitti d’interesse, opacità… Nella crisi dei subprime – prosegue – c’era gente che, pur sapendo benissimo quello che stava accadendo, non immaginava che sarebbe saltato tutto. E la
colpa non è stata della decisione di lasciare fallire Lehman Brothers. Non dico che salvarla non avrebbe fatto alcuna differenza, ma c’erano già ogni sorta di problemi: asset tos-
sici, eccesso di leva, bolla immobiliare… Il mercato interbancario su scadenze overnight ha iniziato a bloccarsi una settimana prima che Lehman andasse giù».
Quando torniamo a parlare del futuro e gli chiedo che
tipo di preparazione serva ai giovani in un mondo del lavoro
in rapida evoluzione, Spence spiega che «insegnare cose
destinate a diventare obsolete è inevitabile. Ciò che bisogna
fare è formare persone che provano piacere a imparare
sempre cose nuove. È un’attitudine che si crea nei primissi-
mi anni di scuola» e che nel caso di Spence è stata evidente-
mente coltivata con un certo successo, tanto che il dottorato
in economia a Harvard che ha lanciato la sua carriera acca-
demica è venuto solo dopo gli studi di filosofia a Princeton
e di matematica a Oxford.
Oggi Spence è convinto che dietro un ricercatore di suc-
cesso ci siano tre elementi: una dose ragionevole di intelli-
genza («nella vita non ho dovuto fare molta strada per tro-
vare gente parecchio più sveglia di me» dice, facendomi
sentire un po’ meno solo); un po’ di serendipity nell’imbat-
tersi in un filone di specializzazione promettente; e molta
tenacia, nel suo caso ereditata da una madre «con una tolle-
ranza relativamente bassa per il fatto che noi figli rinuncias-
simo a fare una cosa senza neppure averci provato. Sono
convinto che i ragazzi possano beneficiare enormemente
dal fatto di crescere avendo fiducia in se stessi». Un debito
di gratitudine verso i propri genitori che il premio Nobel, a
distanza di decenni, riassume con limpidezza: «Non ci han-
no mai fatto sentire alcuna costrizione che non fosse il modo
in cui usavamo il nostro tempo e il nostro talento».

LE INVASIONI BARBARICHE. (Manuela mimosa ravasio)

L’ultima, per ora, è la proposta del sindaco di Venezia che vorreb-
be introdurre multe da 50 a 500 euro per chi osa rifocillarsi seduto in strada o sui gradini della città. Ma ad agosto la
mozione anti-panino c’era stata anche a Firenze, dove la folla in
coda in via de’ Neri per un boccone da L’Antico Vinaio (al top di
tutte le recensioni di TripAdvisor & Co.) era diventata in sosteni-
bile per il chiasso e gli avanzi sparsi ovunque. Non che sia ser-
vito a molto, visto i turisti armati di schiacciata e finocchiona si sono spostati nelle vicine piazza San Firenze e Loggia dei Lanzi.
Il sovraffollamento turistico,battezzato overtourism dagli
esperti, non è un fenomeno che si disinnesca con un’ordinanza.
Secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo, la marea di
viaggiatori pari a oltre un miliardo 300 milioni in giro per il pia-
neta è in aumento costante da otto anni e arriverà nel 2030 a due
miliardi. Una vera invasione transnazionale alimentata da vo-
li low cost, crociere, ma anche da una classe media in vertiginosa
espansione con i viaggiatori cinesi aumentati del 1.380 per cento
in dieci anni (dati World Travel&Tourism Council). Sotto attacco ci sono non solo luoghi-cartolina e città d’arte, ma anche realtà più piccole come San Giminiano, Cinque Terre, Bruges, Car-
cassonne, perché, neanche a dirlo, l’esercito dei vacanzieri pun-
ta ai soliti luoghi comuni, così l’effetto è che a spartirsi i turisti
sono sempre gli stessi Paesi e le stesse città, Italia compresa. «A
Firenze, con 18 milioni di turisti e 350 mila abitanti, la saturazione è raggiunta da tempo» dice Massimo Lensi dell’Associazione Progetto Firenze. «Noi siamo na-
ti per chiedere un turismo che ritorni a essere risorsa economica
e non svendita della città. Si sta perdendo la vera economia del
territorio, appaltando infrastrutture e ricettività a capitali stra-
nieri. Il centro storico ormai abbandonato dai residenti è finito
in affitto a turisti mordi e fuggi».
L’associazione fiorentina in questi giorni darà il via su Change.org a una petizione per chiedere al Parlamento italiano una regolamentazione degli affitti turistici sul modello di esperienze come quelle di Berlino, Parigi e Barcellona. Perché il rischio dell’overtourism è questo: trasformare tutto in un immenso parco a uso esclusivo dei turisti,perdere l’autenticità, le economie del territorio, con il risultato che alla fine tutti sono insoddisfatti: i turisti ingannati in una perenne coda, e i residenti defraudati del loro territorio quotidiano.
Ne La Baixa di Lisbona, secondo il Telegraph la prossima Vene-
zia, ormai ci sono più hotel che abitazioni, nel cuore di Amster-
dam (20 milioni di turisti e meno di uno di abitanti) sono spariti negozi di alimentari e servizi, mentre a Barcellona gli abitanti sono scesi in strada contro la crescita della destinazione turistica degli alloggi che provoca migliaia di sfratti ogni anno. È la turismofobia, spia di un disagio sociale causato da un flusso turistico ormai fuori controllo. «L’educazione al viaggio, l’uso di tecnologie per programmare le visite, il sostegno fiscale per chi difende l’autenticità e persino l’utilizzo dell’imposta di soggiorno per azioni a vantaggio dei residenti, sono tutte strategie per provare a gestire un fenomeno che è globale» dice Maurizio Davolio, direttore dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile membro dell’International Organisation of Social Tourism e che dal 16 al 19 ottobre sarà a Lione per il
congresso mondiale a presentare un position paper sul tema. Te-
ma caldo se anche al prossimo Ttg di Rimini (dal 10 al 12 otto-
bre) i riflettori saranno puntati su quello che l’ultimo report
dell’Italian Institute for the Future ha individuato come trend a
lungo termine su scala globale del prossimo futuro: «Il turismo
è ormai un fenomeno esponenziale che chiede agli attori econo-
mici e politici di operare delle scelte. In città che hanno già imposto regole per arginare la speculazione come Vancouver, Berlino o Barcellona, i proventi derivanti da affitti turistici sono calati dal 10 al 50 per cento. Tuttavia,oramai è dimostrato che, al di sopra di una certa quota, di turismo non si vive, anzi», dice il direttore dell’istituto Roberto Paura.
La ragione sta in quello che Mara Manente, direttore Centro
Internazionale di Studi sull’Economia Turistica dell’università
di Venezia, definisce come bilancio di destinazione: «I costi del
sovraffollamento turistico possono essere ben superiori ai benefici: l’aggiunta dei servizi pubblici, l’impiego di persone per la sicurezza, l’aumento dei rifiuti, i costi ambientali, il pericolo di una monocoltura turistica che azzera le attività produttive loca-li». E allora? Meglio avere meno turisti. Meglio avviare, come stanno facendo città come Amsterdam, strategie di demarketing, meglio istruire le guide ufficiali a portare i visitatori in percorsi alternativi, fare accordi con ferrovie e mobilità pubblica,proibire gli affitti turistici dei privati e contingentare i negozi di souvenir, limitare l’accesso alle navi da crociera. Insomma, andate dovunque, ma non qui.

Franco Bernabè:L’insostenibilità dei grandi numeri.(Paolo Conti.corriere della sera)

Franco Bernabè, banchiere, è il presidente della Commissione italiana per l’Unesco e anche della Quadriennale d’arte di Roma. In passato ha guidato la Biennale di Venezia e il Mart di Trento e
Rovereto. La sua passione per il patrimonio culturale italiano si lega a una vasta esperienza internazionale. Un interlocutore adatto per capire cosa si pensi dell’Italia, e del suo retaggio sto-
rico-artistico, nel mondo.

Come viene percepita l’offerta culturale italiana in campo internazionale?
«Nonostante il pessimismo che si respira troppo spesso in Italia, viene percepita molto bene, come dimostra il
volume e il tipo di turismo che raggiunge il nostro Paese soprattutto nelle città d’arte, che si trovano a un preoccupante livello di saturazione. Ma non sempre, da noi, c’è il giusto riconoscimento del valore del nostro patrimo-
nio artistico culturale. Infatti non dobbiamo illuderci: non possiamo pensare che la nostra unicità possa restare eter-
na, nel panorama dell’offerta culturale planetaria, in continuo cambiamento».

Ormai molti grandi Paesi puntano sia sulla cultura che sull’attenzioneall’ambiente…
«Infatti. In molti altri Paesi — penso alla Cina eatante realtà dell’Asia — la politica ambientale e quella culturale vengono viste come motori di miglioramento e di forte crescita dell’econo-mia nel panorama della globalizzazione. Una netta inversione di rotta rispetto alla seconda metà del ’900».

La Cina è ormai il secondo Paese,dopo l’Italia, che ha il maggior numero di siti considerati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. È diventato il nostro competitor culturale?
«È irrealistico vedere nella Cina un nostro avversario. Parliamo di un Paese immenso che sta investendo cifre enormi nell’incremento del suo patrimonio artistico, con l’apertura di innumerevoli musei di arte antica e contemporanea. Le dimensioni sono imparagonabili con le nostre. La Cina ha 4.000 anni di storia, mortificata negli ultimi due secoli prima dal colonialismo e poi dalla tragedia della guerra civile e del maoismo. Invece oggi fa parte preminente dell’orgoglio nazionale. Nel medio-lungo periodo la sua offerta culturale sarà sempre più ricca e vasta, con dimensioni impensabili per l’Italia. Ma noi abbiamo il nostro grande ruolo culturale, anche se le dimensioni geografiche sono ridotte, e dobbiamo difenderlo con vigore. Anche dalla saturazione».

Il triangolo del turismo di massa Roma-Firenze-Venezia è sempre più soffocato…
«Un fenomeno che si sta allargando anche ad alcune città minori. La pressione turistica di massa sta diventando intollerabile, soprattutto in alcuni luoghi iconici. Un esempio per tutti: il degrado davanti alla Fontana di Trevi a Roma è il simbolo dei problemi che dovremo affrontare se vorremo davvero fronteggiare la crescita del turismo internazionale. I grandi numeririschiano di procurare più danni che benefici».

Come si può risolvere una questione sempre più grave?
«Diversificando e allargando ad altri luoghi, per ora assai poco valorizzati,l’offerta turistica. Ma soprattutto intervenendo subito, dal punto di vista normativo, nei luoghi più affollati che ri-schiano non solo lo snaturamento, ma danni irrimediabili. Vedo due nodi da affrontare: la liberalizzazione del commercio e quella dei bed and breakfast. La liberalizzazione del commercio, nelle grandi città d’arte, ha permesso la morte delle botteghe e attività artigiane che costituivano parte integrante
dell’identità dei luoghi. Al loro posto sono nati venditori di chincaglierie,minimarket, fast food e street food.
Non solo uno sfregio tremendo ma anche migliaia di persone che, ogni giorno, mangiano girando per le strade e per le vie. Un fenomeno di massa che altri Paesi non tollerano. Lo stesso pro-
blema riguarda l’invasione dei bed andbbreakfast nei centri storici che si stanno massicciamente sostituendo alle residenze di chi, in quelle città, è nato e lavora. Si dovrebbe intervenire legislativamente, e subito, con norme molto chiare e strette. La vera tutela si realizza tenendo conto di un contesto molto ampio. Mi sembra una questione straordinariamente urgente: sottovalutarla sarebbe, in prospettiva, un errore irreparabile».

Lei cosa pensa delle prime domeniche del mese gratuite decise dall’exministro Dario Franceschini e delle nuove ipotesi messe a fuoco dall’attuale ministro Alberto Bonisoli, ovvero prime domeniche gratuite in inverno e poi un pacchettoadisposizione
dei singoli direttori di musei?
«Penso soprattutto che vada adottato qualsiasi strumento adatto a rendere facilmente accessibili i musei per dif-
fondere quanto più possibile la cultura nei diversi strati della popolazione. La sensibilità all’arte, al bello fanno parte
integrante del nostro tessuto anche produttivo. Prendiamo i dettagli: solo l’Italia è capace di proporre oggetti curati nel più piccolo particolare. É ciò che ci rende unici sui mercati planetari: e una simile sapienza passa attraverso l’arte. Infatti senza la nostra grande bellezza non ci sarebbe il gusto del lus-
so, e le industrie che gli sono legate.Nel nostro sistema-Paese, insomma, i musei e l’arte sono veramente il carburante che, se ben usato, può alimentare un’imbattibile creatività industriale».
Valorizzazione e tutela del Patrimonio possono coesistere?
«Il problema è mal formulato. Per me la vera valorizzazione non è tanto economica quanto, appunto, culturale.Il patrimonio si valorizza davvero facendolo conoscere quanto più possibi-
le soprattutto ai più giovani: i direttori dei musei devono essere propositivi,soggetti attivi, quindi veri imprenditori culturali. E, dall’altra parte, gli stessi musei devono essere luoghi vivi e fre-
quentati. Non solo scrigni destinati alla tutela, come qualcuno vorrebbe: ritenendo —esbagliando — che la quantità di ingressi sia irrilevante, o che sia addirittura meglio se i visitatori sono
pochi. Con i musei, lo sappiamo bene,non si fanno soldi: non succede in nessuna parte del mondo. La vera ricchezza culturale di un Paese si realizza con la crescita della sensibilità collettiva
per il bello, per l’arte, per ciò che ci circonda da secoli e costituisce il pilastro della nostra identità».

In questo contesto, la Quadriennale d’arte di Roma, col progetto fino al 2020, punta proprio a dialogare in campo internazionale…
«La Quadriennale ha fortunatamente ritrovato il suo ruolo. Ciò che stiamo facendo, con il direttore artistico Sarah Cosulich e il curatore Stefano Collicelli Cagol, in vista dell’esposizione del 2020, è un’attività di analisi e valorizzazione delle forze che domineranno la scena artistica italiana nei prossimi 15-
20 anni. Materiale culturale da promuovere all’estero: parlo sia degli artisti che dei curatori. I due programmi,Q-Rated, Q-International, in vista dell’esposizione Q-2020, puntano, con un
sistema di bandi, a una formazione allargata, al dialogo tra gli artisti italiani e le grandi istituzioni culturali internazionali, alla realizzazione di workshop annuali. Un itinerario per una esposi-
zione dell’arte italiana nel 2020 che non può non tenere conto della situazione della creatività nelresto del mondo».

Twitter e politica. Gino e Michele. Le formiche.

Twitter è anche molto usato dai politici…
«Per l’ego è la più grande invenzione».
In che senso?
«Pure l’ultimo degli ultimi si sente molto letto e considerato, qual-
siasi cosa faccia. Pensi ai coglionazzi che nella vita non hanno molte cose da dire definitive e determinanti… È un modo per comunicare diretto, non c’è neanche il giornalista che media. Si scrive al mondo.Poi se hai cinque o cinque milioni di follower è un altro discorso».
Ma si può fare politica con un tweet o una battuta a effetto?
«È il modo più basso di fare politica oggi, ovvero non farla: sparare dichiarazioni per colpire la fantasia. Tutto riassunto in slogan, senza approfondire niente. L’ultimissima generazione dei politici si muove così, in questi mesi sono state molte più le presenze sui social che in Parlamento».
La sinistra ha perso l’ironia?
«Prima deve dirci se esiste ancora l’ironia…Vabbè, diciamo che c’è.Forse è un periodo in cui la sinistra ha un po’ troppa paura, la situazio-ne non è delle migliori. Ma non abbiamo mai creduto che “peggiore è la situazione, più funziona il comico”».
Pensare che nel 1976 a Radio Popolare facevate una trasmis-
sione di satira sulla sinistra.
«Sovvertivamo tutti i luoghi comuni, perché a sinistra non si ride-
va. Dalla radio abbiamo continuato con Tango, l’inserto satirico
dell’Unità. Non è compito della sinistra ridere, tantomeno di sé stessa. La sinistra era il contrario di quello che dicevamo prima sulla superficialità: doveva solo approfondire».
Con voi approfondiva e rideva.
«Una piccola rivoluzione».
Oggi tra i politici chi fa ridere?
«Premessa: a noi faceva molto ridere Berlusconi. Per un Berlusco-
ni al tramonto c’è un Toninelli che cresce».
Berlusconi raccontava pure le barzellette…
«Nel genere era un maestro, ma un autore dovrebbe girare al largo dalla barzelletta. È una questione di pudore».

Ray Bradbury, fahrenheit 451

“Riempite la gente di dati e fatti, fino a che si sentano quasi esplodere […]. Le persone avranno allora l’impressione di pensare, la certezza di muoversi anche quando in realtà restano immobili”.