La FUFFA. Aldo Cazzullo

Sono convinto che la maggioranza dei navigatori non si connetta per informarsi.
Le motivazioni con cui si solca il vasto mare del web sono conoscere persone dell’altro sesso (o dello stesso a seconda delle inclinazioni) e dare sfogo al proprio narcisismo. Ognuno vuol far sapere al mondo quello che pensa, vede, mangia; e siccome al mondo di noi non importa molto più di nulla, questo genera frustrazione, talvolta livore. Il cellulare è il moderno specchio di Narciso. Che cosa riesce a rompere la coltre dell’indifferenza e dell’autoreferenzialità? Le tragedie di un popolo? Le grandi storie personali? I fenomeni mondiali? Ma no. In Rete funziona soprattutto la fuffa. Più una cosa è inutile e irrilevante – vedi il video della Meloni – più avrà successo, fino a venire promossa al rango della genialità; come se Chiara Ferragni fosse il nuovo Caravaggio.
La commozione che intere generazioni di donne e di uomini avevano provato di fronte alla grandezza degli esseri umani e delle loro opere si muta in fatuo divertimento di fronte allo sciocchezzaio. Avete presente quando in autostrada si crea la coda di curiosi che scrutano l’incidente accaduto nell’altra corsia? Ecco: Internet è l’incidente.

ERRORE DEL SISTEMA. SNOWDEN

“In uno Stato autoritario i diritti derivano dallo Stato e sono concessi al popolo. In uno Stato libero i diritti derivano dal popolo e sono concessi allo Stato. Nel primo i popoli sono soggetti ai quali viene soltanto permesso di possedere una proprietà privata, ottenere un’educazione, lavorare, pregare e parlare poiché è il loro governo a consentirglielo. Nello Stato libero i popoli sono cittadini che si mettono d’accordo per essere governati secondo un patto consensuale che deve essere periodicamente rinnovato ed è costituzionalmente revocabile. È questo urto fra l’autoritarismo e la democrazia liberale che credo costituisca il maggiore conflitto ideologico del mio tempo, non la nozione architettata e tendenziosa di una divisione fra Oriente e Occidente, o il revival di una crociata contro il Cristianesimo o l’Islam”.

STORIVERSI. Andrea Fontana

«Oggi non solo viviamo in bolle cognitive, ma abitiamo in veri e
propri storiversi. Uno storiverso è l’insieme dei contenuti-episodici o meno, inventati o reali – che costruiamo su di noi o sugli altri, in forma narrativa e in modo continuativo, che poi condividiamo nelle diverse piattaforme mediatiche che usiamo»

la passione digitale delle imprese, (Francesca Gambarini, il corriere della sera 26/11)

«Siamo a un punto di rottura: le nostre aziende magari hanno tergiversato, ma ora sanno che non si può tornare indietro, perché il digitale ha ormai pervaso ogni settore e attività — spiega Alessandra Luksch, direttore degli Osservatori Digital Transformation Academy e Startup Intelligence —. È un cambio culturale, oggi le imprese cercano interlocutori nuovi: startup, centri di ricerca e aziende non concorrenti, che si affiancano a quelli tradizionali. Il modello Amazon fa scuola: sperimentare e avventurarsi in settori anche diversi dal business originale».

Paolo Sorrentino

Ritiene che la tecnologia ci rende oggi più creativi rispetto al passato?

No. Ritengo che in molti casi la tecnologia soppianti l’indolenza, condizione necessaria per essere creativi. Ma poi “creativi” non vuol dir nulla. Bisogna solo lavorare, lavorare, lavorare.

tutta l’intervista qua!

Deglobalizzazione.Michael Spencer. (di M. Masciaga, il sole24)

Uhm… credo di aver imparato a dire: “Non lo so”». Ho appena chiesto a Michael Spence come è cambiata la sua vita dopo aver
vinto, nel 2001, il Nobel per l’Economia e il professore statunitense si sta cimentando in una cosa in cui eccelle: non
prendersi troppo sul serio. Il problema, spiega, è che dopo
il premio «la gente tende ad ascoltare quello che hai da
dire… anche quando non hai la minima idea di ciò di cui stai
parlando».
La battuta è brillante, ma mi sorprende solo fino a un
certo punto. Quando si mette a scherzare sulla propria
“ignoranza”, Spence sta parlando ormai da 45 minuti e ho
già notato come non abbia mai detto di aver «vinto» il Nobel.
Ogni volta che vi fa cenno, l’espressione che usa è «came
along». Come se il riconoscimento più ambito gli fosse ap-
punto «arrivato», motu proprio, più o meno per caso.
Con il professore della New York University e della Boc-
coni ci siamo dati appuntamento in un hotel di Brera, nel
centro di Milano, la città dove da una decina d’anni vive con
la moglie italiana e i loro figli e dove non è raro vederlo sfrec-
ciare in bicicletta. Al netto di rughe e zazzera bianca, Spence
ha l’aspetto di un uomo più giovane dei suoi imminenti 75
anni. Oggi indossa una polo bianca, jeans neri e mocassini
che hanno visto tempi migliori. Le braccia abbronzate e un
diver della Seiko suggeriscono che l’estate è stata trascorsa
a debita distanza da formule e lavagne.
In un’epoca in cui sembra obbligatorio avere convinzioni
granitiche, Spence dà l’impressione di osservare i fenomeni
economici e sociali con la curiosità dello scienziato e il di-
stacco di chi ha deciso di vestire con frugalità i panni del
public intellectual. Fortunatamente l’umiltà che filtra dalle
sue risposte, anziché circoscrivere il perimetro dei suoi ra-
gionamenti, funziona da lubrificante dialettico. Non appena
finisce di esporre un’idea, si mette a osservare il problema
dalla prospettiva opposta. Il risultato è un alternarsi di cam-
pi e controcampi che aiuta a capire non tanto “cosa”, ma
“come”, pensa.
Quando gli chiedo un punto di vista su alcune derive in
atto in Occidente (unilateralismo, pulsioni antiscientifiche,
barriere commerciali…) lui spiega che si tratta di questioni
«unambiguously problematic, almeno dal punto di vista dei
rischi che creano». Subito dopo però aggiunge che «c’è un
modo leggermente diverso di guardare a tutto questo: il
mondo andava riconfigurato, c’era bisogno di fare dei passi
indietro perché eravamo su un sentiero che per la gente non
funzionava. Ciò a cui stiamo assistendo è questa ritirata. È
disordinata, certo. Potrebbe “costarci” la Wto. L’Eurozona
potrebbe uscirne trasformata. Un altro modo di guardare
a questa sorta di deglobalizzazione – aggiunge Spence, co-
me per condurre la sua risposta verso una sintesi – è che non
è il caso di essere troppo pessimisti. Stiamo riportando in
equilibrio un grande sistema. Non perché qualcuno abbia
necessariamente commesso degli errori imperdonabili, ma
perché nel frattempo abbiamo imparato un sacco di cose».
A questo punto Spence indossa per qualche minuto i
panni del professore e mi invita a pensare alla globalizzazio-
ne in termini di flussi di beni e servizi; capitali; persone; dati.
«Su tutte e quattro queste dimensioni – spiega – stiamo assi-
stendo a una marcia indietro. Prendiamo i dati, ovvero In-
ternet. Per i cinesi è chiaramente una rete nazionale che
connettono all’esterno nella misura in cui lo reputano utile.
Gli europei ora dicono: “Non avevamo realizzato quanto la
sicurezza dei dati e della privacy fossero importanti. Quindi
cominciamo anche noi a porre delle condizioni”. Ma la cosa
più interessante è che anche gli indiani hanno cominciato
a guardarsi attorno e hanno deciso che sarebbe un errore
non avere delle mega-piattaforme web nazionali come
quelle cinesi: Ali Baba, Tencent, Baidu… Ora, siccome oggi
le mega-piattaforme sono in Cina e negli Stati Uniti, sono
curioso di vedere cosa faranno India ed Europa, dato che
entrambe hanno il potenziale per svilupparne di proprie,
perché la questione è cruciale». Perché? «Beh, perché l’intel-
ligenza artificiale si sviluppa intorno alle mega-piattaforme,
perché è lì che ci sono le grandi masse di dati. Dieci anni fa
chi avrebbe pensato che a trainare la ricerca sui veicoli a
guida autonoma sarebbe stato un motore di ricerca? Invece
sono loro ad avere le tecnologie per il riconoscimento delle
immagini e i dati per sviluppare l’intelligenza artificiale».
Spence segue con grande curiosità questo tipo di trasfor-
mazioni (lo divertono tanto i “Flash boys” che spendono
fortune in fibra ottica per fare high-speed trading quanto gli
influencer che si accaparrano follower sui social network) ed
è convinto che l’impatto della tecnologia sul mondo del la-
voro sarà meno duro di quello della globalizzazione. «Il pro-
cesso – spiega – sta avvenendo più lentamente di quanto si
creda e gli effetti saranno più diffusi. In termini occupazio-
nali la globalizzazione ha colpito in maniera molto precisa
geograficamente, per esempio dove c’erano industrie tessili
e dell’abbigliamento. Oggi nei Paesi industrializzati il setto-
re non-tradable (quello più a rischio, ndr) vale circa due terzi
dell’economia, quindi l’impatto sarà meno concentrato.
Questo non significa che non ci saranno problemi. Ma forse
arriveremo a un punto in cui la gente riceverà stipendi ade-
guati senza lavorare tanto come adesso».
Il guaio, secondo Spence, è che le istituzioni non stanno
rispondendo in maniera efficiente al cambiamento. «Ci so-
no due dimensioni: la prima è quella in cui governo, mondo
del lavoro e mondo della scuola intervengono. Il modello
migliore è quello in cui collaborano, ma la cosa implica un
livello di fiducia reciproca che non c’è dappertutto. La secon-
da dimensione ha a che fare con le rigidità strutturali. Certe
resistenze sono difficili da superare perché originano dal
bisogno di impedire abusi. I Paesi capaci di adattarsi sono
quelli in cui si riesce a convincere la gente che le novità non
marginalizzeranno un sacco di persone. E non è mai facile».
Anche perché, suggerisco, negli ultimi anni la fiducia
sembra merce piuttosto rara, come testimonia il crescente
scetticismo verso gli esperti, e gli economisti in particolare.
«Premesso che un mondo che non crede alla conoscenza è
un mondo molto pericoloso, penso che un po’ ce lo siamo
meritato. Non abbiamo valutato in maniera equilibrata al-
cune cose molto importanti che stavano accadendo. Diceva-
mo che la globalizzazione avrebbe favorito praticamente
tutti, con alcune piccole eccezioni che avremmo trovato il
modo di compensare. Eccetto per il fatto che il modo non è
stato trovato. E poi abbiamo perso altra credibilità perché
non avevamo la più pallida idea del rischio sistemico che ha
generato la crisi finanziaria del 2008. Ancora oggi non sia-
mo in grado di capire quando inizia a crescere».
Eppure, protesto, c’è già chi chiede la deregulation dei
mercati. «Vero, ma non necessariamente a torto», risponde
Spence che è convinto che su questo terreno ci sia stata una
reazione eccessiva. «Detto questo -chiosa – pensare che il sistema si possa regolare da solo sarebbe un grave errore: ci sono troppi conflitti d’interesse, opacità… Nella crisi dei subprime – prosegue – c’era gente che, pur sapendo benissimo quello che stava accadendo, non immaginava che sarebbe saltato tutto. E la
colpa non è stata della decisione di lasciare fallire Lehman Brothers. Non dico che salvarla non avrebbe fatto alcuna differenza, ma c’erano già ogni sorta di problemi: asset tos-
sici, eccesso di leva, bolla immobiliare… Il mercato interbancario su scadenze overnight ha iniziato a bloccarsi una settimana prima che Lehman andasse giù».
Quando torniamo a parlare del futuro e gli chiedo che
tipo di preparazione serva ai giovani in un mondo del lavoro
in rapida evoluzione, Spence spiega che «insegnare cose
destinate a diventare obsolete è inevitabile. Ciò che bisogna
fare è formare persone che provano piacere a imparare
sempre cose nuove. È un’attitudine che si crea nei primissi-
mi anni di scuola» e che nel caso di Spence è stata evidente-
mente coltivata con un certo successo, tanto che il dottorato
in economia a Harvard che ha lanciato la sua carriera acca-
demica è venuto solo dopo gli studi di filosofia a Princeton
e di matematica a Oxford.
Oggi Spence è convinto che dietro un ricercatore di suc-
cesso ci siano tre elementi: una dose ragionevole di intelli-
genza («nella vita non ho dovuto fare molta strada per tro-
vare gente parecchio più sveglia di me» dice, facendomi
sentire un po’ meno solo); un po’ di serendipity nell’imbat-
tersi in un filone di specializzazione promettente; e molta
tenacia, nel suo caso ereditata da una madre «con una tolle-
ranza relativamente bassa per il fatto che noi figli rinuncias-
simo a fare una cosa senza neppure averci provato. Sono
convinto che i ragazzi possano beneficiare enormemente
dal fatto di crescere avendo fiducia in se stessi». Un debito
di gratitudine verso i propri genitori che il premio Nobel, a
distanza di decenni, riassume con limpidezza: «Non ci han-
no mai fatto sentire alcuna costrizione che non fosse il modo
in cui usavamo il nostro tempo e il nostro talento».

LE INVASIONI BARBARICHE. (Manuela mimosa ravasio)

L’ultima, per ora, è la proposta del sindaco di Venezia che vorreb-
be introdurre multe da 50 a 500 euro per chi osa rifocillarsi seduto in strada o sui gradini della città. Ma ad agosto la
mozione anti-panino c’era stata anche a Firenze, dove la folla in
coda in via de’ Neri per un boccone da L’Antico Vinaio (al top di
tutte le recensioni di TripAdvisor & Co.) era diventata in sosteni-
bile per il chiasso e gli avanzi sparsi ovunque. Non che sia ser-
vito a molto, visto i turisti armati di schiacciata e finocchiona si sono spostati nelle vicine piazza San Firenze e Loggia dei Lanzi.
Il sovraffollamento turistico,battezzato overtourism dagli
esperti, non è un fenomeno che si disinnesca con un’ordinanza.
Secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo, la marea di
viaggiatori pari a oltre un miliardo 300 milioni in giro per il pia-
neta è in aumento costante da otto anni e arriverà nel 2030 a due
miliardi. Una vera invasione transnazionale alimentata da vo-
li low cost, crociere, ma anche da una classe media in vertiginosa
espansione con i viaggiatori cinesi aumentati del 1.380 per cento
in dieci anni (dati World Travel&Tourism Council). Sotto attacco ci sono non solo luoghi-cartolina e città d’arte, ma anche realtà più piccole come San Giminiano, Cinque Terre, Bruges, Car-
cassonne, perché, neanche a dirlo, l’esercito dei vacanzieri pun-
ta ai soliti luoghi comuni, così l’effetto è che a spartirsi i turisti
sono sempre gli stessi Paesi e le stesse città, Italia compresa. «A
Firenze, con 18 milioni di turisti e 350 mila abitanti, la saturazione è raggiunta da tempo» dice Massimo Lensi dell’Associazione Progetto Firenze. «Noi siamo na-
ti per chiedere un turismo che ritorni a essere risorsa economica
e non svendita della città. Si sta perdendo la vera economia del
territorio, appaltando infrastrutture e ricettività a capitali stra-
nieri. Il centro storico ormai abbandonato dai residenti è finito
in affitto a turisti mordi e fuggi».
L’associazione fiorentina in questi giorni darà il via su Change.org a una petizione per chiedere al Parlamento italiano una regolamentazione degli affitti turistici sul modello di esperienze come quelle di Berlino, Parigi e Barcellona. Perché il rischio dell’overtourism è questo: trasformare tutto in un immenso parco a uso esclusivo dei turisti,perdere l’autenticità, le economie del territorio, con il risultato che alla fine tutti sono insoddisfatti: i turisti ingannati in una perenne coda, e i residenti defraudati del loro territorio quotidiano.
Ne La Baixa di Lisbona, secondo il Telegraph la prossima Vene-
zia, ormai ci sono più hotel che abitazioni, nel cuore di Amster-
dam (20 milioni di turisti e meno di uno di abitanti) sono spariti negozi di alimentari e servizi, mentre a Barcellona gli abitanti sono scesi in strada contro la crescita della destinazione turistica degli alloggi che provoca migliaia di sfratti ogni anno. È la turismofobia, spia di un disagio sociale causato da un flusso turistico ormai fuori controllo. «L’educazione al viaggio, l’uso di tecnologie per programmare le visite, il sostegno fiscale per chi difende l’autenticità e persino l’utilizzo dell’imposta di soggiorno per azioni a vantaggio dei residenti, sono tutte strategie per provare a gestire un fenomeno che è globale» dice Maurizio Davolio, direttore dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile membro dell’International Organisation of Social Tourism e che dal 16 al 19 ottobre sarà a Lione per il
congresso mondiale a presentare un position paper sul tema. Te-
ma caldo se anche al prossimo Ttg di Rimini (dal 10 al 12 otto-
bre) i riflettori saranno puntati su quello che l’ultimo report
dell’Italian Institute for the Future ha individuato come trend a
lungo termine su scala globale del prossimo futuro: «Il turismo
è ormai un fenomeno esponenziale che chiede agli attori econo-
mici e politici di operare delle scelte. In città che hanno già imposto regole per arginare la speculazione come Vancouver, Berlino o Barcellona, i proventi derivanti da affitti turistici sono calati dal 10 al 50 per cento. Tuttavia,oramai è dimostrato che, al di sopra di una certa quota, di turismo non si vive, anzi», dice il direttore dell’istituto Roberto Paura.
La ragione sta in quello che Mara Manente, direttore Centro
Internazionale di Studi sull’Economia Turistica dell’università
di Venezia, definisce come bilancio di destinazione: «I costi del
sovraffollamento turistico possono essere ben superiori ai benefici: l’aggiunta dei servizi pubblici, l’impiego di persone per la sicurezza, l’aumento dei rifiuti, i costi ambientali, il pericolo di una monocoltura turistica che azzera le attività produttive loca-li». E allora? Meglio avere meno turisti. Meglio avviare, come stanno facendo città come Amsterdam, strategie di demarketing, meglio istruire le guide ufficiali a portare i visitatori in percorsi alternativi, fare accordi con ferrovie e mobilità pubblica,proibire gli affitti turistici dei privati e contingentare i negozi di souvenir, limitare l’accesso alle navi da crociera. Insomma, andate dovunque, ma non qui.

Alessandro Fiorello, JOBPRICING

«le differenze fra il mercato retributivo dei lavori ‘intellettuali’ e ‘manuali’ pongono non pochi interrogativi: viene da chiedersi se le trasformazioni tecnologiche che stanno impattando sul mondo del lavoro porteranno ad un progressivo allineamento delle retribuzioni verso l’alto, secondo l’attuale struttura di mercato, oppure se si assisterà ad una progressiva ‘svalutazione’ dei lavori intellettuali».

qua trovate l’articolo

Ray Bradbury, fahrenheit 451

“Riempite la gente di dati e fatti, fino a che si sentano quasi esplodere […]. Le persone avranno allora l’impressione di pensare, la certezza di muoversi anche quando in realtà restano immobili”.